Ossessione

26 dicembre 2014
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Ormai lo sapeva, era tutta colpa della serotonina che nei suoi neuroni se ne stava come un’utilitaria nel traffico delle ore di punta: quasi immobile. Eppure, quella spiegazione scientifica, secca, razionale, per tre anni di sofferenza reale, le stava stretta. Michela avrebbe voluto una follia vera, di quelle drammatiche e disperate, senza un confine. Invece era solo una banalissima mancanza di comunicazione innestata, probabilmente, su una predisposizione genetica. Tutto spiegabile, tutto spiegato, insomma. Ora che il Natale le aveva portato come inatteso dono lo scioglimento dell’incantesimo maligno, si sentiva stanca, come una persona che avesse tentato di svuotare per mesi e messi il mare con una sassola.
L’uscita dal tunnel che si era arredata con pervicacia, giorno dopo giorno, sofferenza dopo sofferenza, meticolosamente, senza respiro e senza più fiato, era avvenuta come d’incanto. Probabilmente, il semaforo rosso della serotonina s’era sbloccato. Gli eventi della vita l’avevano preso a martellate e quello era tornato verde, lasciando che la triptamina (neurotrasmettitore monoaminico sintetizzato nei neuroni serotoninergici nel sistema nervoso centrale, nonché nelle cellule enterocromaffini nell’apparato gastrointestinale, principalmente coinvolta nella regolazione dell’umore) scorresse libera viaggiando nel labirinto del cervello.

Fatto sta che in una manciata di ore Michela era scoppiata a ridere davanti a due fatti che, fino a qualche tempo prima, l’avrebbero mandata nella depressione più nera.
Era la vigilia di Natale e passeggiava per il centro storico con un collega che ormai lavorava all’estero e la sua famiglia che lui aveva portato a conoscere la città. Erano entrati in una chiesa del centro storico per vedere la Natività del Grechetto e insieme a loro era entrata una donna sulla cinquantina, con uno scollo vertiginoso su una sesta di reggiseno generosamente messa in mostra, esattamente come faceva nelle foto di cui inondava i social network. L’allestimento era davvero inopportuno per quel luogo, anche se mancavano le scarpe “tacco 15 su plateau alto 3” che la donna metteva in mostra nelle immagini, esibendosi in pose provocanti, salvo poi lamentarsi ogni giorno che le giungevano proposte oscene, che qualcuno segnalava le sue foto come inadatte (e che per quello venissero cancellate, segno che lo erano davvero) e che la inserivano puntualmente in gruppi dedicati alla pornografia e a ogni genere di pratica sessuale. Michela non ci mise molto a riconoscerla. Era una della scuderia più o meno virtuale di Ossessione. Si trattava di un pezzo “pregiato”, che si distingueva per sfrontatezza dalla maggior parte delle altre, generalmente donne sole dall’intelletto modesto e la propensione a frequentare locali per cuori solitari , femmine dallo sguardo triste e dall’animo semplice e romantico disposte a tutto per un giro in moto o un gelato in corso Italia e abituate a postare su Facebook lamentele contro i loro ex uomini che lui commentava stigmatizzando il comportamento altrui e che, invece, gli si attagliavano perfettamente. Michela non l’aveva mai vista di persona quella donna che Ossessione, pur girandole attorno da tanto tempo sulle bacheche di contatti comuni (aveva detto, facendo finta di scherzare, di volerle chiedere l’amicizia solo per poter vedere le tette nelle foto), aveva aggiunto alla lista degli “amici” di Facebook solo quando la loro storia sia era chiusa. Certamente, le due donne non frequentavano gli stessi ambienti. Michela, quando riusciva ad uscire, preferiva i locali dove si faceva musica e si discuteva di politica e attualità, mentre la donna-manga era l’attrazione di quelli squallidini, dove carampane e arzilli sessantenni pascolano in cerca di un’avventura a ritmo di musica sudamericana. Il pettoruto esserino aveva gambe come stecchini su cui si affacciafano quei seni enormi e innaturali, tanto da far temere ad ogni passo per la stabilità del soggetto e, contemporaneamente, fugavano ogni dubbio sulla scarsa professionalità del chirurgo estetico. L’effetto d’insieme era quello del pollo dei cartoni animati. Michela capì perché ogni foto della donna era solarizzata in volto. A guardarla di persona, si vedevano le rughe ed era chiaro che il macellaio da sala operatoria si era limitato, in quel caso, a copiare malamente gli occhi dai personaggi dei manga giapponesi. A vederla così, di persona, la donna-manga faceva l’effetto di un personaggio felliniano buttato a viva forza in un film alla “Alvaro Vitali”, con i capelli sciatti e spettinati, tinti di uno scontato nero corvino e quella voce querula e gracidante con cui spiegava inascoltata il suo personalissimo “senso della vita” a uno degli accalappiati, quello che, quel giorno, si portava in giro come legato per le “parti basse” a un guinzaglio virtuale fin dentro la chiesa di San Luca. Si capiva che quasi non si conoscevano e che il passeggio pomeridiano era frutto di un tentativo di adescamento da parte di entrambi, ognuno a suo modo e con i propri fini. Lei gracidava il “donna-manga-pensiero”, lui, inesorabilmente, le guardava le tette. L’esserino pettoruto portava stivali a tacco tozzo e non certo vertiginoso a reggere due gambette secche secche. Altro che tacco a spillo! E mentre già Michela se la rideva, tentando di non farsi notare troppo, il suo collega girò la testa e le sussurrò con un pizzico di malignità:

<Almeno, la mia macchina di pneumatici ne ho quattro>. In quella manciata di parole era contenuto tutto un mondo. L’analisi e il giudizio. E a lei si raggelò il sangue, perché nel tentativo di tenere accanto a sè Ossessione, si era esteticamente avvicinata al look di quel genere di donna, abbandonando i kilt per gli abitini corti, i sottogiacca di merinos per magliette scollate, le giacche di lana cotta per i giubbotti da moto, i mocassini per gli stivali che salivano sopra il ginocchio. Se ne rendeva conto solo in quel momento. Con disgusto e vergogna.
La sua ossessione per Ossessione si era spinta oltre, addirittura a tentare di intavolare discorsi seri con uno che sapeva dissertare solo di bulloni della moto e sparare sentenze fascio-qualunquiste. Uno con cui non aveva avuto per due interi anni una discussione che l’avesse arricchita di una sola nozione, uno che sapeva tutto sui motori e nulla su qualsiasi argomento che non fosse la sua passione per il sesso, la sua bella famigliola “vecchio stile” (con la moglie devota e timorata di Dio, oltre che impegnatissima a “non vedere”, e il figlio a funzionare da – esigente – collante per una coppia che agli occhi di tutti appare scoppiata ormai da tempo) e l’abbigliamento da motociclista. Uno che per sua stessa, “fiera”, ammissione non aveva mai aperto un libro. Il sistema che Michela aveva usato per tentare di sciogliere l’ossessione era stato quello di tornare a leggere per tenere occupato il cervello, per affermare di non averlo completamente perso. Per i due anni che aveva alle spalle aveva comprato e accatastato volumi senza aprirli. Li aveva, adesso, fatti fuori in un mese, tornando poi nella sua libreria a ripescarne altri da rileggere. Non riusciva, però, a smettere di tormentarsi, a smettere di vedere i “come sei bella, stellina!” che Ossessione scriveva nelle bachece dei social di una ventina di donne, di soffrire per ogni messaggio cattivo chiaramente diretto a lei che lui trovava sempre il modo di scrivere sulla sua bacheca per sincerarsi che soffrisse ancora un po’. <Michela, hai quasi cinquant’anni e non hai nulla a che fare con questa spazzatura>, si ripeteva. Eppure…
Eppure ci ricadeva sempre, ogni volta. Nonostante avesse adottato i più disparati escamotages per non pensare a lui. Aveva preso a camminare, tanto, trasformando ogni itinerario in un gesto ossessivo: saltare la fuga delle piastrelle, impiegare esattamente dodici passi per arrivare da un punto all’altro del marciapiede. Sapeva che quello era, esattamente, il manifestarsi dell’ossessione. E, per quanto nella sua vita stesse accadendo ogni genere di spiacevolezza completamente slegata da quella storia, tendeva a vedere “quel” problema come “il” problema. Era soffocata dalle paure immotivate e illogiche pur avendone una serie di motivatissime e ragionevoli di cui curarsi. Si svegliava di notte, per quel poco che riusciva a dormire, sognando che le stessero forzando la porta di casa. Per riaddormentarsi, si metteva in una ben precisa posizione: un altro segno dell’ossessione. Non le bastava pensare il modo in cui lui l’aveva usata e, stretto all’angolo, aveva rinunciato all’unica cosa che gli interessasse – il sesso, ormai unica traccia della relazione – pur di poter ricominciare a dragare donne nel suo serbatoio di amicizie reali o virtuali e a poter godere degli effetti della “caccia” senza nemmeno pensare a dover mandare un messaggio dopo essere sparito per un intero week end in cui dovevano, invece, vedersi. Ricordava i “ti voglio bene”, che il senno di poi targava come evidenti menzogne, non le mille mancanze di rispetto ricevute ogni giorno per due lunghi anni o il totale disinteresse dell’uomo per ogni sua esigenza o problema. Non ascoltava gli amici che le ripetevano che si era gettata, mani e piedi legati, in un abisso di aridità e cattiveria. Non aveva inviato alla moglie di quel campione di egoismo e superficialità le foto e i messaggi che avrebbero distrutto il matrimonio raccontandosi di non voler affondare di più nella melma dell’ossessione, sapendo perfettamente che, invece, non lo faceva per non far male a lui. Sapeva perfettamente anche di essersi buttata in quella storia senza motivo, senza ragione e senza senso per evitare di coinvolgersi in un’altra che temeva le avrebbe fatto più male, perché il soggetto era decisamente più consono al suo modo di essere, ai suoi valori, alla sua cultura. E aveva avuto paura di perdere, di non farcela, con l’eterno senso di inadeguatezza che la spingeva a comportamenti e scelte emotive e affettive irrazionali pur di non mettersi in gioco. Alla luce di questo, sapeva che Ossessione non era altro che un’ossessione qualunque, l’uomo sbagliato capitato al momento sbagliato. Lo era diventato proprio perché era così poco che non poteva permettergli di non amarla, lei, così enormemente e palesemente “di più” di tutto il circo di donnine tristi o squallide (o entrambe le cose) che gli ruotava attorno. Non faceva i conti col fatto che lui non poteva distinguere la differenza, essendo totalmente privo degli strumenti necessari ad intuirla. Tra le crudeltà che lui le aveva dispensato, c’era stata persino quella chiederle di farsi un fidanzato “serio” per poi tornare a scopare con lui a tempo perso, evidentemente immaginando di poter trarre da quella situazione solo quello che gli interessava e liberarsi di ogni “obbligo”. Michela sapeva tutto questo, ma la sua mente andava in loop e non era capace di uscirne. Era riuscita a decidere di non volerlo (e per questo lo aveva messo davanti alla scelta, sapendo perfettamente quale strada lui avrebbe intrapreso), ma non riusciva a smettere di soffrire.
Fortunatamente, le ossessioni sentimentali sono cicliche o addirittura rappresentano episodi isolati nella vita di una persona. Di fatto, prima o poi arriva il click.
Il click è arrivato il giorno di Natale, quando i fratelli di Ossessione avevano postato le foto della loro festa in casa in un posto sperduto della Francia. C’erano parecchie immagini di Ossessione che sfoderava il suo solito sorriso fasullo. Lei pensò automaticamente che aveva inventato l’ennesima scusa per lasciare la moglie e il figlio a casa per farsi, come di consueto, i fatti suoi. Quando lui decideva, non c’erano festività o compleanni familiari che tenessero. E le storielle raccontate a proprosito dei rimorsi e dei doveri familiari erano, appunto, storielle. Quante volte l’aveva portata con sè all’estero con lo stesso escamotage di tornare nella sua terra. E proprio per essere libero di farsi completamente e totalmente i fatti suoi quando andava in giro lontano da casa, l’estate scorsa (mentre lei stava stringendo le briglie della relazione e – non sopportando più che lui potesse pensarla ingenua e sprovveduta come la moglie – gli dava l’autaut), aveva deciso di liberarsene. Di fronte all’ennesima “fuga di Natale”, Michela non si era chiesta una volta di più come la moglie facesse a non capire. Non era più un problema suo. Si era risolta finalmente a capire che la moglie capiva, eccome! Quel rapporto inconsistente conveniva a entrambi, per motivi più o meno nobili, più o meno legittimi, più o meno dignitosi. Ma lei, perché era rimasta tanto tempo a farsi prendere in giro? Ossessione, nelle foto le sembrava, adesso, un troll maligno con la testa spelacchiata, il pancione e il naso rosso, una caricatura, un personaggio di Brueghel. Guardandolo nella foto, per la seconda volta in due giorni era scoppiata a ridere. Aveva visto il primo piano di Ossessione, col solito sorriso falso, pronto per essere postato in bacheca sui social network o da mandare sulle messaggerie telefoniche alle sue donnine. Poi, nelle altre foto, ancora lui, costantemente impegnato a scrivere sul telefonino, maniacalmente, senza tregua. Perché mantenere relazioni multiple, gestire quelle in corso e procurarsene altre, è una fatica. Intanto, sulle bacheche del “circo delle zitelle” (ma, come si è detto, vanno benissimo anche le “accompagnate, purché disponibili) cominciavano ad apparire i “Buon Natale”, dispensati a tutte con la stessa viscida falsa gentilezza, con la sfrontatezza guascona di un adolescente senza cervello, di uno che non pensa di fare del male semplicemente perché il suo intelletto rattrappito non ci arriva. Tra i tanti, c’era anche quello riservato alla pettoruta donna-plastica, rimasto lì, senza nemmeno un like, senza una risposta palese.
Le sinapsi di Michela, in quel momento, si erano inondate di serotonina. Ora rideva, rideva di gusto. E non rideva più di se stessa. Era tornata a casa senza più guardare il cellulare, senza contare le piastrelle, senza pensare, riflettere o giudicare se stessa. Ridacchiando. Non si piange sull’Ossessione versata. Si addormentò serenamente come non accadeva da tre anni.

Ogni riferimento a fatti, persone o cose è puramente casuale.
Tre anni di orrore, squallore, pochezza d’intelletto e di sentimenti, mancanza di rispetto, sgarberie, cattiverie, una donna intelligente nella vita reale non potrebbe mai sopportarli. Vero?

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