La zuppa di miglio

15 febbraio 2015

<Basta! Da oggi mangio sano> disse lei, spingendo in mezzo ai turisti a caccia di souvenir gastronomici il carrello dei Puffi nel supermercato neocolonialista, sentendosi un po’ in colpa per l’ampia scorta di “pain au rasin” preparato la mattina e tenuto in giacenza nel forno spento e pure per aver appena acquistato una irragionevole quantitá di farine nelle varietá “per il pane”, “per la pizza”, “per la focaccia al formaggio”, “per le crostate e i canestrelli “e “per i croissant” con scopi palesemente consoni a un regime alimentare inconfessabile.
Senso di Colpa le prese la mano destra e la infilò a viva forza nello scaffale che lei definiva “dei semini”, davanti al quale, solitamente, tirava dritta, nella profonda convinzione di non essere un canarino. <Prendi!> disse Senso di Colpa, mentre lei tentava di ritrarre la mano, traguardando con lo sguardo lo scaffale degli untissimi e gratificanti sottolio. <Prendi!> ripetè lui, col tono di chi non ammette dibattito. Allora lei, che non aveva voglia di intavolare discussioni con Coscienza, la quale da tempo la richiamava a un regime alimentare ipocalorico, scelse secondo il colore, certa, in cuor suo, che il sacchetto sarebbe rimasto sullo scaffale nei secoli dei secoli (amen) e tanto valeva vivacizzare la dispensa: miglio e lenticchie rosse. Era uno di quei prodotti etichettati come vegan-bio-equosolidali dal prezzo al grammo pari a quello dei diamanti di colore G. Proprio il prezzo, sproporzionato, la fece tentennare. <Prendì!> ripetè Senso di Colpa (noioso, eh!) e a nulla valsero le proteste della donna che tentava di spiegare come, per la stessa cifra, avrebbe potuto comperare due chili di miglio e lenticchie solidarmente scorrette, piene di adittivi – diserbanti e antiparassitari, ma decisamente più sostenibili (per la tasca) presso la drogheria di Canneto il Lungo invece dei 400 grammi totali del sacchetto.
Continuò a vagare tra gli scaffali, indugiando davanti a quelli pieni di crema alla nocciola o di amaretti di Voltaggio prestigiosa produzione del Signor Cavo, proprietario di una liquoreria-pasticceria del centro storico nella quale riusciva ad entrare solo nelle sporadiche occasioni in cui Senso di Colpa si distraeva a rimirare la vetrina colma di squisite mini torte di tutte le fogge e i sapori. Quel giorno, Senso di Colpa, purtroppo, non pareva avere intenzione alcuna di abbassare la guardia. Insieme a Coscienza, la marcava stretta più della sorveglianza del supermercato, che in quell’andirivieni davanti agli scaffali colmi di delizie aveva individuato un potenziale comportamento sospetto. Lei, a malincuore, resasi conto che persino la giacca le stava ormai troppo stretta, rinunciò a peccare. Se ne lamentò sommessamente tra sè e sè a mo’ di Paperino (<Me misera, me tapina, sic sic, sob sob>) tra sè e sè, mentre due turisti lombardi, in coda alle casse, tentavano senza molta fortuna di pronunciare “prescinsêua”con effetti comici tra gli astanti indigeni, non prima di aver dissertato come fossero cuochi stellati sul “pesto”, pronunciato con la e larga di chi le troffie non le ha mangiate appena terminato l’allattamento al seno al posto della pappetta di verdura.
Pagò e si diresse verso casa che era ormai l’ora di cena. Sistemò gli acquisti nel mobile e aveva quasi diciso di aprire la scatola delle mozzalle di bufala quando Senso di Colpa la prese alle spalle. <Cosa fai? Ti rendi conto che se prendi ancora un chilo ti tirano fuori dalla città metropolitana, ti nominano provincia a se stante e ti danno pure la targa?!!!>. La diplomazia non era la dote migliore di Senso di Colpa. Lei, allora, cominciò a leggere le istruzioni del sacchetto destinato a diventare il suo mesto pasto: mettere nella pentola un litro e mezzo d’acqua e, quando bolle, buttare 400 grammi di prodotto. Approfittando dell’assenza di Coscienza e confidando nell’analfabetismo di Senso di colpa, si mise a tagliare la cipolla per il soffritto di frodo. Le istruzioni raccomandavano di mettere poco sale. Lei le lesse mentre ne stava buttando un pugno abbondante nell’acqua. <Oh, peccato. L’ho letto troppo tardi. Peccato davvero, sarà per la prossima volta>, disse, scartando un dado di produzione elvetrica, squisito concentrato di glutammato monosodico e aromi sui quali è meglio non indagare. Lo fece scivolare con voluttà nella pentola mentre, con l’espressione di un attrice consumata, faceva finta di seguire per filo e per segno la ricetta. A fine cottura, si guardò bene dall’inserire nel preparato quanto era consigliato, cioè salsa di soia e gommasio. La salsa di soia le piaceva solo sugli spaghetti di liso saltati, al “listorate cinese”. Quanto al gommasio, chi mai potrebbe volere nella propria minestra una cosa il cui nome richiama quello di un chewin-gum o di un pneumatico?
Spolverizzo, invece, con abbondante pepe bianco e parmgiano e aggiunse un filo d’olio “buon peso”. Nonostante la minestra fosse tutt’altra cosa rispetto alla ricetta, vi si approcciò con un pizzico di diffidenza e, alla fine, aggiunse un’altra abbondante manciata di parmigiano.
<Devo ammettere – disse a Senso di Colpa – che non è poi così male>.
Lui si ritirò a piangere nella dispensa delle marmellate (accorgendosi con orrore che metà della scorta era stata fatta fuori) e affogò la disperazione in un bicchiere di tè deteinato.

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