L’appuntamento di Emilia

La vera storia della mia trisnonna Emilia Casagrande e del suo appuntamento con la morte

Questa è la storia vera della mia trisnonna Emilia Casagrande, sposata con Giovanni Battista “Baciccia” Caviglia, madre di Giovanni, di un’altra figlia della quale non conosco il nome e della mia bisnonna Ada, nata il 17 luglio 1896 e morta nel 1945 (esattamente come il fratello). Quando la madre è morta, la bisnonna Ada aveva solo 10 anni. Non ha avuto miglior fortuna: è morta a 49 anni di leucemia (immagino sia questo che intendevano mia nonna e sua sorella quando dicevano che “le era andato il sangue in acqua”). Il tutto è ricostruito grazie alla storia che mi raccontò nonna Rachele “Lina” Assereto e i documenti ai quali ho potuto accedere grazie all’enorme banca dati vivente che è mia zia, Ada Di Carlo, la quale conserva foto e certificati dell’epoca e custodisce i racconti di nonna Lina e di sua sorella Erminia “Milly” Assereto. Nulla ho inventato del “patto con Dio”, della preoccupazione delle sorelle e della questione dei campanelli che hanno suonato per tre giorni (non esistevano le moderne strumentazioni e servivano per verificare la morte effettiva e ad evitare di chiudere nella cassa i vivi). Ovviamente, nessuno di noi crede al contrattino. Propendiamo per un infarto determinato dalla paura con cui questa donna ha convissuto per tanto tempo, un infarto da suggestione, insomma.
Anche la foto è reale. In famiglia è accreditata come “foto di Emilia Casagrande e del marito Baciccia (Giovanni Battista) Caviglia”. In realtà, guadandola bene, ci si rende conto che il soggetto maschile è molto più giovane di quello femminile (a spanne, Emilia Casagrande dovrebbe essere morta tra i 40 e i 45 anni e nella foto ha i capelli che si stanno ingrigendo). Inoltre, la posizione della donna, la mia trisnonna, è perfettamente riconducibile a quelle dei ritratti “post mortem” che si diffusero nel periodo Vittoriano e, piano piano, coinvolsero anche la borghesia diventando uno status symbol. Spesso, chi non possedeva un ritratto “da vivo” veniva immortalato per richiesta dei congiunti dopo la morte, quasi sempre in atteggiamenti che lo facessero pensare ancora in vita, insieme a loro. Credo che i fotografi cercassero lavoro attorno alle camere mortuarie, esattamente come ora fanno attorno alle aule in cui si svolgono le discussioni delle tesi di laurea, per vendere il loro servizio. Per tenere su le salme erano stati inventati i supporti più bizzarri. Il viso dell’uomo del ritratto, inoltre, è del tutto sovrapponibile a una fotografia di Giovanni, figlio di Emilia, quando era ormai un uomo di mezza età. La morte della mia trisnonna è avvenuta nel 1906, l’anno in cui, a marzo, a Genova, nella spianata del Bisagno (l’attuale piazza della Vittoria) si esibì Buffalo Bill e in cui fu iniziato e terminato il Palazzo dei Giganti di via XX Settembre in cui il mio trisnonno e suo figlio lavoravano come stuccatori.

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Sono morta. Oggi, anzi, proprio in questo momento. Deve essere così che è la morte: le voci delle persone che ti stanno attorno e si sentono sempre più lontane, i suoni più flebili, gli odori che scompaiono, l’assenza di dolore dopo una sofferenza acutissima, la paura che, finalmente, si dissolve. Sì, la paura che mi ha tolto il sonno e il sorriso per 21 anni, il terrore dell’esecuzione che si avvicinava ogni giorno, ogni minuto, finalmente non ci sono più. Non si può avere paura di ciò che è già successo.
Mi chiamo Emilia, Emilia Casagrande, e sono morta adesso. Dovrei dire “mi chiamavo”, perchè ora sono stesa a terra esanime, in un cantiere. L’ultima voce che sento, lontanissima, è quella di mio figlio Giovanni che oggi è diventato maggiorenne e che mi sta chiamando disperato. Non ci credeva che sarei morta oggi. Mi diceva che davo credito a superstizioni bigotte. Ora lo sa anche lui che il mio baratto – la mia vita per la sua – non era nella mia mente, ma in quella di Dio. Con l’Onnipotente non si scherza, figlio mio. Ora lo sai anche tu. Avresti dovuto prepararti, invece di prendermi bonariamente in giro, abbracciarmi quando te lo chiedevo invece di scrollare le spalle con tutta la spavalderia della tua giovane età: un giovane uomo, mi dicevi, non abbraccia la mamma. Che penserebbero di lui gli amici? Ora, invece, sì, mi stai stringendo forte. Lo percepisco, anche se anche questo senso se ne sta andando. Gridi, mi stringi e piangi. Ti prego, Giovanni, non bestemmiare. È giusto così, anzi, tuo padre Baciccia ed io abbiamo ricevuto un grande regalo: 21 interi anni assieme e con te, 21 anni in cui sono arrivate anche le tue sorelle. Ada, la più piccola, ne ha solo 10. Loro due non sanno niente e stamattina, quando le ho salutate facendo loro mille raccomandazioni, certamente non hanno capito. Ma tutti gli altri sanno. A te è stato detto tre anni fa, perché potessi prepararti, ma tu hai sempre rifiutato di prendere sul serio la cosa. Promettimi, ora che puoi comprendere tutta la mia paura, di pensare alle piccole, giovane uomo al quale ho regalato la vita due volte dando in pegno la mia.
Non pensare che oggi sia un giorno triste. Lo è stato quello in cui, avevi solo pochi giorni, la malattia ti stava portando via. I medici scuotevano la testa e ti davano per spacciato. Avevi una febbre altissima, piangevi dal dolore. Il mio cuore si spezzava a ogni tuo grido. Io ho pregato, pregato fortissimo. Ho chiesto a Dio di darmi il tempo per crescerti, per vederti arrivare alla maggiore età. Prostrata davanti alla tua culla, ho invocato il Santissimo Suo Nome ed Egli mi ha concesso la grazia. In poche ore la febbre è scomparsa e il tuo colorito è diventato roseo. “Un miracolo”, dissero i medici. Tuo padre, le mie sorelle ed io andammo a piedi alla Guardia per ringraziare l’Altissimo e la Madonna. Il Signore dà e il Signore prende e si dice per tradizione che, per ogni grazia  concessa, la Vergine che apparse al Beato Pareto prenda in cambio qualcosa. Ti ha lasciato la vita e, come pattuito, ha preso la mia, riscuotendola puntuale come una cambiale. Nel cambio, è stata generosa accontentandosi del “pagherò” della mia misera esistenza.
Quanti hanno provato a farmi sciogliere il “contratto”. Una delle mie sorelle, quando nacque Ada, mi trascinò da un prete per convincermi che questi impegni, presi in stato di necessità si possono sciogliere. E il sant’uomo confermò, precisando che sarebbero stata sufficienti una donazione alla parrocchia e una novena di preghiera per cancellare ogni debito. Disse che Dio non firma patti inscindibili, come fece invece il Demonio con Faust. E, a dire il vero, io questa cosa non l’ho mai capita, ma tuo padre Bacciccia, che quel libro lo ha letto, sosteneva che il Supremo non può esser fatto della stessa stoffa del Maligno. Ad ogni modo, fui io a rifiutare: non c’è denaro che ripaghi una vita. Ho avuto paura dell’ira dell’Onnipotente. Ho temuto che si prendesse le tue sorelle per punirmi. L’unica esistenza che mi sentivo di offrire in pegno è sempre stata solo la mia.
Tuo padre ha tentato di convincermi che Dio non poteva essere così crudele da riscuotere il pegno. Io so, però, che non è stata crudeltà, ma giustizia. Paura, sì, paura ne ho avuta tanta. Di soffrire. E di lasciare soli tuo padre, le tue sorelle e te. Ora tu sei un uomo. Lavori da anni con tuo padre come stuccatore nella bottega di Michele Sansebastiano. Tu e papà, ora, siete accanto al mio corpo immobile, inginocchiati. Non vi vedo, ma lo so. Non capisco come possa accadere tutto questo, ma lo so. Anche papà sta piangendo. Anche lui, come te, non credeva fosse possibile. Le mie sorelle, sì, loro lo sapevano che sarebbe successo. Tanto che oggi avevano deciso di accompagnarmi lungo il percorso tra casa e il Palazzo dei Giganti, dove con tuo padre state sistemando i telamoni in cemento che sorreggeranno le colonne. Via XX Settembre sta crescendo bellissima e questo edificio è uno degli ultimi a dover essere terminato. Io sapevo che non ne avrei visto l’inaugurazione. Oggi è il tuo compleanno, figlio mio e io sapevo perfettamente di non poter vedere la fine di questo 1906 perché oggi, proprio oggi, sarei morta. Ho messo in ordine tutto, in casa. È tutto pulito, spolverato, lavato, stirato, in ordine perfetto. Negli ultimi mesi ho lavorato giorno e notte al telaio per terminare il corredo per le tue sorelle. Chi sa di aver poca vita davanti a sé non ha tempo di sprecare nel sonno. Stamattina ho preparato per voi il pranzo, che tua sorella più grande non spendo cosa è successo nel frattempo, avrà servito alla più piccola e che in parte, come ogni giorno, ho messo nelle gamelle per portarlo a te e a tuo padre. Ricordo ora con dispiacere di aver lasciato un grembiule sporco su una sedia della cucina nella fretta di uscire prima del solito per sfuggire alle mie sorelle che avevano deciso, oggi, di accompagnarmi, per soccorrermi nel caso mi fossi sentita male. Ma io sapevo che sarebbe stato inutile, come inutile sarebbe stato costringerle ad assistere alla mia morte. Così non lo ho permesso. Stanno arrivando qui ora, di corsa, dopo avermi cercato ovunque. Le immagino davanti a me, impietrite dal dolore. Le sento. Mi ero raccomandata di andare subito nella chiesa della Consolazione, che è proprio davanti al cantiere, ad accendere una candela per la mia anima. Spero che almeno adesso mi diano retta, che per una volta facciano quello che chiedo. Ho bisogno di essere accolta in fretta tra le braccia di Dio perché voi possiate dimenticare il prima possibile e proseguire la vostra strada nella vita. Ora, che tu e tuo padre mi state deponendo nel carro che mi porterà all’obitorio dell’ospedale di Pammatone, mi rendo conto che, se ancora sento le vostre mani, non posso essere davvero morta. I cavalli partono, la carrozza risale via XX Settembre facendo il percorso inverso rispetto a quello che ho fatto a piedi per arrivare al cantiere. Stamattina sono uscita da casa con le gamelle, mi sono infilata nei vicoli, ho sentito gli odori delle spezie, delle torte salate e dello stoccafisso e che uscivano dalle botteghe. Ho guardato per l’ultima volta i miei piedi muoversi sulle lastre di Luserna nella mia adorata città, fino ad arrivare al porto, per annusare l’ultima volta l’odore del mare e vedere ancora gli alberi dei velieri stagliarsi contro il cielo. La campana della cattedrale ha suonato le 11,30 e li ho dato l’addio alla mia città piangendo perché non potrò vedere il tuo matrimonio e quello delle tue sorelle. Mi è tornato in mente l’ultimo momento felice trascorso tutti assieme al circo di Buffalo Bill allestito sulla spianata del Bisagno, nel marzo scorso. Tuo padre aveva voluto affittare addirittura un palco, spendendo ben 6 lire per ognuno di noi. Inutili furono le mie proteste e il suggerimento di guardare tutto dalle mura di Santa Chiara come fecero in molti. Voleva portarci a vedere quell’angolo di West americano costruito nella nostra città, con tanto di teepee (disse che le tende di pelle degli indiani si chiamavano così), le incursioni dei pellirossa respinte dai cow boys, gli assalti alla diligenza, le prove di destrezza con armi e lazos per la cattura di fuorilegge e di cavalli selvaggi a cui si aggiungevano le esibizioni dei cosacchi.
Sopraffatta dai ricordi, mentre le lacrime mi solcavano il volto e sudando freddo, ho arrancato su per via San Lorenzo. Mi sono fermata in cattedrale a dire una preghiera per tutti voi e mi sono avviata, poi, “al patibolo”. La gente mi è passata affianco, ma era come se non la vedessi. Tanto che ho scontrato il garzone di un fornaio che mi ha fatto cadere a terra. Mi sono rialzata e, rifiutando ogni aiuto, mi sono affrettata a completare il cammino. Sono arrivata al cantiere col fiatone, per timore di giungere tardi all’appuntamento con Dio e con la morte. Il cuore mi batteva fortissimo, con un ritmo scomposto. Tu mi sei corso incontro, come ogni giorno in cui ti ho portato il pranzo in tutti questi anni, dal primo giorno in cui hai cominciato a lavorare. Sono caduta a terra prima che scendessi dall’impalcatura e mi raggiungessi, dilaniata da un dolore fortissimo al petto. E sono morta.
O forse no.
Ora, sono nuda sul tavolo di marmo dell’obitorio. Non sento il freddo, ma provo vergogna. Finalmente mi coprono con un telo. Adesso stanno legando campanelli ai miei alluci e questi, di quando in quando, suonano deboli. No, non sono ancora morta. Sento che se lo confidano quelli che stanno spostando di peso un defunto nella cassa. Chissà quanti cadaveri ci sono attorno a me. Intanto, i campanelli continuano a suonare. Sei arrivato tu, insieme a tuo padre e alle mie sorelle, che finalmente trovano la forza di piangere. Ci sono anche le mie figlie. Ada, non sento Ada, la più piccina. So che c’è, ma non sento la sua voce. Sta muta due passi indietro, terrorizzata. La più grande, invece, mi accarezza i capelli, le mie sorelle mi chiedono perdono per non essere riuscite a salvarmi. <Non piangete, vi prego, lasciatemi andare – vorrei gridarvi -. È meglio per tutti! Andate a casa!>. Ho lasciato sul letto un abito grigio scuro, del colore che si conviene ad ogni salma che stia per finire sotto due metri di terra. Lo ho cucito apposta ed è chiuso con dei bottoni sul davanti, perché sia più facile infilarlo a una morta. I campanelli tornano a suonare e voi correte a chiamare i medici. Loro vi spiegano che sono solo riflessi nervosi e che, purtroppo, sono proprio morta. Si tratta solo di aspettare che smettano di suonare per seppellirmi. Vi dicono che il suono è sempre più raro e meno forte e che tra qualche tempo smetterà. Vi raccomandano di non farvi illusioni. Quel suono deve smettere! Cerco di convincere la mia anima a lasciare il corpo il più presto possibile per terminare in fretta questa lenta agonia, ma voi mi tenete qui, con le vostre lacrime, le vostre preghiere e il vostro amore.
Tu piangi, figlio caro. Non vorresti abbandonarmi. Ma i medici ti avvicinano per convincerti e, alla fine, gli infermieri ti portano via quasi di peso. Fuori dalla porta, ti avvicina un fotografo. Ti chiede se vuoi una foto con la salma. Sì, tu rispondi di sì. Nel frattempo sono tornate le mie sorelle con l’abito che ho cucito, che mi viene infilato come meglio si può. Mi pettinano e mi siedono su una sedia, legandomi a un alto schienale di legno con una fascia che i becchini coprono, sul davanti, con una sciarpa chiara perché non si noti nella fotografia. Mi tengono dritta appoggiandomi a sinistra a un muretto e infilando un dito della mia mano destra nell’occhiello del tuo bavero. perché tu possa sostenere il mio corpo esanime dall’altra parte. Mi hanno anche aperto le palpebre, anche se gli occhi non vedono più. Tu stai vicino a me. Tremando. Il fotografo ti dice di stare fermo, perché lo scatto sarà lungo. Ma sento che ti muovi e prendi con la mano destra la mia mano sinistra.
Basta. Ora è finita. Ora i campanelli non suonano più. Sono passati tre giorni e sono pronta per la vera morte, adesso. Tu piangi, piangi disperato. Non devi fare così, figlio mio. Ti voglio bene, te ne ho voluto più che alla mia stessa vita. Sento il coperchio della cassa che si chiude sopra di me.
Poi, finalmente, più nulla.

©Monica Di Carlo 2014 – Tutti i diritti riservati – Vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’autore

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